« Il disegno è il grande moltiplicatore delle soglie della realtà ».1 Così Marco Tirelli definisce il disegno, che ha sempre accompagnato la sua ricerca come una sorta di grande serbatoio di immagini, un ampio deposito di memorie dove ogni elemento attende di essere attivato per diventare opera. Per anni questa dimensione intima è rimasta confinata all’interno dei diari , dove l’artista annota forme, parole, versi, componimenti musicali , immagini o architetture che colpiscono la sua attenzione, in una sorta di segreta e stimolante reverie di matrice benjaminiana. Fonti inequivocabili e imprescindibili di opere su carta o dipinti su tela, queste suggestioni tracciate sui fogli dei diari hanno custodito per decenni l’universo privato dell’artista, una sorta di Mnemosyne warburghiana che lo avvicina, per alcuni versi, a grandi maestri del Novecento italiano come Umberto Boccioni e Giorgio De Chirico. Limitati ad un ruolo accessorio, benchè significativo, questi materiali sono stati presentati in rare occasioni accanto alle tele, in un sottile contrappunto dove lo spazio principale era sempre occupato dalla pittura, sintesi essenziale del flusso di queste immagini , come in uno stream of consciousness, dalle pagine del diario alle carte per arrivare al precipitato della pittura.
Dopo una lunga e complessa gestazione, questi disegni sono assurti al ruolo di protagonisti nel 2013, in occasione della mostra Immaginario all’Istituto Nazionale per la Grafica ,2 dove Tirelli presentò esclusivamente opere su carta insieme ai diari, esposti per la prima volta ed indicati dall’artista come locus generandi del suo processo creativo ed immaginifico: una sorta di “mappa concettuale” del suo pensiero che prende forma nell’Atlante, costituito da una serie di tavole che riportano su supporto fotografico gli itinerari mentali creati da Tirelli attraverso l’accostamento di immagini provenienti da fonti diverse ma complementari, “depositate nei piccoli spazi che si susseguono come topoi “ spiega Claudia Cieri Via3. Sempre nel 2013 all’interno del Padiglione Italia alla LX Biennale di Venezia, Tirelli presenta un “Teatro della memoria”: una stanza con le quattro pareti interamente ricoperte di disegni , alternati ad alcune piccole sculture in bronzo, simili a delle maquette . “La giustapposizione di queste immagini, sia in forma bidimensionale che tridimensionale in una struttura a griglia- scrive Barbara Rose- richiede che siano lette come un unico lavoro composto da tanti frammenti che includono parti di mani e di teste umane, scale che scompaiono, interminabili gallerie scure, biologia molecolare, parti del corpo, diagrammi cosmologici, strumenti di laboratorio come microscopi e telescopi”.4
Per la mostra al Museo di Saint Etienne Marco Tirelli ha deciso di concentrare il suo immaginario sulla parete centrale della sala, alta 7,60 m e lunga 27,40 m, interamente ricoperta da più di 400 disegni , quasi a comporre una sorta di archivio privato e personale dove, per modelli e frammenti, entra il mondo intero, da cui l’artista ricava volta per volta le visioni dei propri dipinti. Una vera e propria wunderkammer che contiene centinaia di soggetti diversi, dagli oggetti d’uso quotidiano alle architetture, dagli animali alle mappe alle geometrie: un’installazione concepita come un laboratorio aperto di idee ed immagini, una sorta di vocabolario privato, che Barbara Rose ha giustamente paragonato al Teatro della Memoria di Giulio Camillo Delminio, descritto da Francis Yates come un dispositivo mnemonico simile ad una scaffalatura , dove la mente può immagazzinare ricordi specifici ai quali può accedere a suo piacimento.5 Ed è proprio la memoria il punto di partenza del pensiero dell’artista, che la definisce come “un immenso bacino, un serbatoio di immagini, come fossero all’interno di un grande lago in cui i fiumi del vissuto confluiscono e le immagini sedimentano sul fondo, pronte a riemergere nel momento in cui qualcosa le riattivi”. 6Un processo di attivazione tutto mentale che trae origine dagli spazi degli studioli , luoghi di riflessione e meditazione all’interno delle residenze dei signori delle corti italiane del Rinascimento, come Federico da Montefeltro o Isabella d’Este. L’apparato decorativo di questi spazi risponde ad uno schema ben preciso, dove ogni elemento gioca un ruolo fondamentale. Così all’interno del palazzo Ducale di Urbino lo studiolo di Federico ha le pareti ricoperte da tarsie lignee, disegnate da un gruppo di artisti , che raffigurano vari oggetti legati alla personalità del duca, tra i quali spiccano strumenti astronomici e di misurazione, come astrolabi, squadre, mazzocchi, libri, animali, leggi, calamai e armature. Un posto di rilievo spetta agli strumenti musicali, che sottolineano il ruolo della musica nella cultura del principe rinascimentale, confermato anche all’interno nello studiolo di Isabella d’Este nel castello di San Giorgio a Mantova, dove , tra le imprese della colta marchesa , troviamo un pentagramma musicale che riporta soltanto l’indicazione delle pause senza le note, probabilmente “a simboleggiare il silenzio, condizione privilegiata per un luogo della mente” spiega Cieri Via. 7
Del resto, la stessa natura dell’impresa rinascimentale può essere associata ai soggetti dei disegni di Marco Tirelli: immagini simboliche di carattere enigmatico, spesso associate a motti in latino, che indicano un intento, un proposito, un’inclinazione caratteriale o una qualità del loro illustre possessore, sia questo un principe, del calibro di Ludovico Gonzaga o Cosimo de’Medici, o un umanista, come Aldo Manuzio o Giovanni Pico della Mirandola. “ Le imprese erano esibite in guerra o durante giostre e tornei, per dichiarare la servitù amorosa o la fedeltà politica, comparendo in questi casi impresse su elmetti, cimieri e scudi e ricamate su stendardi, bandiere e sopravvesti. Riportate su libri, suppellettili d’arredo, stoviglie, finimenti di cavalli, edifici, le imprese avevano inoltre il compito di marcare visivamente la loro appartenenza a un determinato signore” spiegano Lorenzo Bonoldi e Federica Pellati8. Così come le imprese rinascimentali, che evocano e rimandano a concetti elevati, anche i disegni di Marco Tirelli si configurano come significanti. Essi appartengono, come puntualizza Agostino De Rosa, “a due categorie del reale: alcuni sono oggetti minimali-superfici simili ad ampolle alchemiche, scatole scoperchiate di differenti forme e configurazioni, vani architettonici privi di infissi-che contengono uno spazio intimo e oggettuale (…)altri invece sono enclaves-recinti, ambienti, gabbie-in cui la presenza umana è bandita, non per scelta linguistica ma perché luoghi che diventano muti testimoni di un mondo di archetipi”. 9
Archetipi come frammenti, memorie di un mondo perduto. Se le tarsie e le imprese sono immagini allusive di un sistema di valori e di idee nel quale il principe si rispecchiava per ritrovare la propria centralità come personaggio colto ed illuminato, nell’epoca neoclassica tale sistema era ormai perduto, e la classicità trasformata in una rovina senza più anima: una saudade dell’antichità di cui Giovan Battista Piranesi è l’interprete perfetto. “Architettura e città sono i testi attraverso cui Piranesi interroga la storia: non da erudito e filologo, ma da architetto, artista e uomo d’azione calato nella contemporaneità, che dall’analisi del monumento-documento cerca il senso forte, alto, del ruolo dell’intellettuale che esercita un’azione incisiva sulla società” puntualizza Mario Bevilacqua.10 “Come Piranesi mi sento un raccoglitore di oggetti di confine, trovati tra l’abisso del nonsenso, che tutto contiene, e la luce del desiderio: sono lì come rovine, sottratti al flusso interiore, distillati di vita e di memoria”11 aggiunge Marco Tirelli, interessato all’aspetto più idealista del maestro: “era contemporaneamente artista neoclassico e romantico, era combattuto cioè tra l’idea di far rivivere la classicità dell’impero romano come modello di immutabile perfezione, e d’altra parte consapevole che quest’ultima ci sia pervenuta solo in frantumi e rovine, ovvero che il mondo sia soggetto al tempo, alla trasformazione e dunque alla dissoluzione. Da qui la sua ossessiva catalogazione dei reperti”. 12
Si possono rintracciare dei fil rouge ideali all’interno di questo spazio dove l’artista ha dispiegato il suo immaginario , prima riunito sulle pareti di una stanza e ora squadernato su un’unica, immensa parete? Uno dei principali filoni che possiamo individuare tra le centinaia di forme tracciate da Tirelli su carta riguarda la presenza di soggetti legati all’osservazione, sia del vicino che del lontano. Telescopi, microscopi, piattaforme, tralicci, lenti, schermi, proiettori, altane, macchine fotografiche, torrette di avvistamento: oggetti, macchine, strutture e architetture che si riferiscono all’atto del guardare, esercizi sul calcolo del tempo e dello spazio che si fondono con l’attrazione verso il loro stesso superamento, verso la curiosità di osservare oltre il confine delle cose. Assimilazione, dunque, dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, attraverso l’uso di strumenti scientifici, precisi, meravigliosi, costruiti dall’uomo per indagare, cercare, osservare ciò che sfugge all’esperienza dell’immanente kantiano, per attraversare con lo sguardo la consistenza per giungere all’inconsistenza. Pittura come strumento per guardare oltre, “perspicere” secondo la definizione utilizzata da Albrecht Durer in relazione alla prospettiva, alla capacità dell’arte di creare orizzonti visivi e mentali. 13Forme definite e riconoscibili nella loro natura di oggetti che qui , come avviene negli studioli del Rinascimento, evocano un altrove, rimandano ad un mondo di frammenti, rovine, memorie, concetti, idee, relazioni, simboli. ”Possiamo intenderle-afferma l’artista-come estensioni infinite, mai chiuse o meglio chiuse e aperte insieme, dissolvenze e ricostruzioni, espansioni in un intreccio di continue modifiche reciproche, come un gioco infinito di specchi, l’uno dentro l’altro”.14 Una descrizione che rimanda a quella che Jorge Luis Borges fa della Biblioteca di Babele: “Di qui passa la scala spirale, che si inabissa e s'innalza nel remoto. Nel corridoio è uno specchio, che fedelmente duplica le apparenze”15. Il mondo di Tirelli, come quello di Borges, si trova sul confine tra reale e mentale, ammesso che esista.
Ludovico Pratesi